Il costo umano della produzione dell’iPad

di Redazione 6

Qualche mese fa alcuni reporter del New York Times hanno accettato un difficile compito: la realizzazione un’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori cinesi che producono gli iPhone, gli iPad e molti altri gadget elettronici e computer che milioni di utenti occidentali utilizzano ogni giorno.
Un’inchiesta diversa da tutte le altre che finora abbiamo letto e che in gran parte erano basate su report di seconda mano, un’inchiesta che entrasse davvero nelle fabbriche e potesse mettere assieme le testimonianze di fonti vicine alle aziende fornitrici.

Il primo frutto di questo difficile “assignement” è un articolo sul perché Apple e altre aziende scelgono di produrre in Cina i propri gadget, comparso sulle pagine del New York Times qualche giorno fa. Ne abbiamo parlato dettagliatamente nel nostro articolo “Perchè Apple costruisce i suoi iPhone in Cina”.

Ieri il NYTimes ha pubblicato la seconda “puntata“, che parla più direttamente dei costi umani di quella produzione. E’ un articolo duro ma equilibrato (vero capolavoro del miglior giornalismo d’inchiesta americano) secondo il quale Apple, per quanto sinceramente attenta alle tematiche del lavoro in Cina, non esita in ogni caso a forzare condizioni contrattuali che innescano violazioni e soprusi.

UPDATE: Tim Cook ha risposto con una mail interna ai dipendenti (che è prontamente trapelata). Dettagli a fondo articolo.

Uno dei passaggi più interessanti dell’intero articolo, il cui straziante fil rouge è la storia di Lai Xiaodong, operaio di Chengdu morto per le ustioni riportate nell’esplosione dell’area dello stabilimento in cui lavorava, è la spiegazione del perché è giusto prendere Apple ad esempio quando si parla di queste problematiche.
Uno degli aspetti più contraddittori di molte inchieste del passato è che quasi tutte sembravano limitare eccessivamente il problema ad Apple. I reporter del New York Times ci spiegano il perché della loro scelta in maniera egregia:
“Data la prominenza e la leadership nel settore della manifattura globale, se la compagnia decidesse di cambiare totalmente i propri metodi, potrebbe sovvertire il modo in cui si fanno affari in quest’ambito”.

Il costo umano della produzione dei gadget che tutti amiamo, apprendiamo prove alla mano, è altissimo. Lai Xiaodong è solo una delle vittime dell’esplosione di Chengdu. Ce ne sono state altre, ci sono stati altri incidenti e ci sono stati i suicidi. Ma a parte i morti e i feriti, ci sono le centinaia di migliaia di lavoratori stipati in dormitori, sottoposti a turni massacranti.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di lavoratori trattati secondo le leggi vigenti in Cina, e probabilmente meglio di molti loro connazionali. Ciò non toglie che le condizioni che in Cina sono permesse per legge, e che Apple come molte altre aziende accetta, nei Paesi occidentali sarebbero viste come abiette e insostenibili. E’ questa la vera, grande, ipocrisia di fondo.

Il New York Times fa un ottimo lavoro nel ricordare che Apple è seriamente e sinceramente motivata a migliorare le condizioni di lavoro presso le aziende dei propri fornitori. Vi sono ampi riferimenti alla pubblicazione del Supplier Responsibility Report di quest’anno, con il quale Apple ha estesamente documentato le numerose infrazioni dei propri partners e ha reiterato l’impegno a correggere le situazioni anomale per il meglio. Dire dunque che Apple sfrutta i lavoratori cinesi all’osso pensando soo al profitto non sarebbe corretto, e i reporter del New York Times ci tengono a far capire che non è questa l’intenzione della loro inchiesta.

Quello che però vogliono fare è comunicare lo stridente contrasto, che in posti come Shenzhen e Chengdu, dove Foxconn ha i suoi più grandi stabilimenti, si fa assordante, fra quel “committment” e la necessità di produrre milioni di dispositivi mantenendo margini di ampio profitto e in quantità senza precedenti. Questo semplicemente perché, come ha più volte rimarcato anche Tim Cook nelle conference call con gli analisti, se le fabbriche potessero sfornare più dispositivi di quanti ne riescono a sfornare al momento, Apple ne venderebbe automaticamente di più. Un equazione che sembra semplice e ovvia, ma che in realtà praticamente nessuno dei concorrenti di Apple può applicare ai propri prodotti.

In realtà, confermano alcuni ex-dirigenti con cui hanno parlato i reporters del New York Times, non ci sono pressioni esterne abbastanza forti da giustificare un simile drastico cambiamento. Apple è uno dei marchi più apprezzati al mondo, e se i consumatori devono pensare rapidamente ad un aspetto negativo della compagnia, svelano i sondaggi, nella maggior parte dei casi indicano il prezzo eccessivo di prodotti che aspirerebbero comunque ad acquistare.

Le pressioni esterne arrivano però dalle associazioni per la tutela dei lavoratori cinesi, molte delle quali lamentato una totale sordità da parte di Apple alle loro proteste e alle loro proposte. Non è vero, sostengono, che Apple stia già facendo tutto il possibile e la minaccia della sottrazione di una commessa ai fornitori che violano il codice di condotta imposto da Cupertino non è sufficiente, o spesso viene applicata in maniera incoerente. Perché se è vero che per ottenere una commessa Apple le aziende del Sud-Est asiatico, e quelle cinesi in particolare, fanno praticamente di tutto (compresi investimenti preventivi sulle infrastrutture, ancor prima di essere scelte) è pur vero che interrompere una collaborazione fruttuosa con una di queste aziende comporta costi e perdite di tempo per trovare nuovi partner alle stesse condizioni.

Quando Apple si muove nel settore per stipulare una partnership di produzione, spiega il New York Times, chiede all’azienda “candidata” uno spaccato di ogni singolo costo. Sulla base di quello Apple fa la propria offerta, spesso impossibile da rifiutare, che però garantisce un margine ridottissimo al produttore. La conseguenza è che per alzare quel margine il produttore deve diventare più efficiente, più rapido e chiudere un occhio sulle condizioni dei lavoratori. O magari chiuderli entrambi, come alla Wintek, dove in alcuni stabilimenti in cui veniva effettuata la pulitura degli schermi dell’iPhone e dell’iPod touch alcuni manager fecero utilizzare l’n-esano al posto dell’alcool denaturato, perché evapora più in fretta. Peccato che l’n-esano sia altamente neuro-tossico e che più di una quarantina di dipendenti hanno rischiato la vita (e alcuni devono ancora riprendersi). Wintek ha subito una dura reprimenda per questo incidente e una riduzione degli ordini e dei margini il successivo anno.

Un ex-dirigente Apple vicino al gruppo che si occupa della Supplier Responsibility ha confessato ai reporter: “abbiamo avuto questo tipo di discussione centinaia di volte. C’è una genuina intenzione da parte di tutta l’azienda vero il codice di condotta [per i fornitori, ndt]. Ma portare tutto ad un livello più avanzato confligge con la segretezza e gli obiettivi produttivi, e quindi quanto già facciamo è il massimo cui si possa arrivare”.

Dopo l’esplosione alla fabbrica di Ghengdu che ha ucciso Lai Xiaodong e altri suoi colleghi, dovuta all’alta concentrazione delle polveri di alluminio derivanti dalla lucidatura delle scocche dell’iPad 2, Foxconn ha promesso una revisione degli standard di sicurezza e un controllo migliore e più efficiente. Pochi mesi più tardi un’altra fabbrica, a Singapore stavolta, è saltata in aria per lo stesso identico motivo.

Questa seconda parte dell’inchiesta è disponibile pubblicamente sul sito del New York Times. Va da sé che la lettura del dettagliatissimo articolo è vivamente consigliata.

UPDATE: Tim Cook ha risposto alle “accuse” del New York Times, spiegando, in una lettera ai dipendenti, che Apple non ignora affatto i molti problemi della “supply chain”. Ecco un estratto della lettera, che potete leggere per intero qui:

“Team,
Come compagnia e come individui siamo definiti dai nostri valori. Sfortunatamente alcune persone stanno mettendo in dubbio i valori di Apple, oggi, e io vorrei parlare del problema con voi direttamente. Abbiamo a cuore ogni singolo lavoratore della nostra catena di produzione mondiale. Ogni incidente ci turba profondamente e qualsiasi problema con le condizioni di lavoro è per noi causa di preoccupazione. Ogni illazione sul fatto che a noi non importa nulla sono deliberatamente false e offensive nei nostri confronti. Come voi saprete meglio di tutti, accuse come queste sono opposte ai nostri valori. “

Commenti (6)

  1. la apple è l’azienda più avida che io abbia mai potuto saperne. Produce in cina a costi da terzo mondo e vende a prezzi iperbolici facendo degli utili da vomito. Almeno abbassasse i prezzi cosi da poter giustificare questa condotta cosi discutibile e a mio parere tiranneggiante. Tutti producono in asia ma a questo prezzo… è una vergogna!

  2. Guarda che qualunque produttore che ha fabbriche in Europa o in Asia Sud – Orientali o Meridionali lavora e fa lavorare in questo modo. Semplicemente perchè è il mercato a richiederlo. Se smettessero di farlo, per qualunque ragione….Tempo un trimestre e darebbero costrette a portare i libri contabili in tribunale o fare altre drammatiche scelte dello stesso genere.

    L’unica differenza tra la produzione Apple e quella degli altri produttori è che, nel suo genere, Apple ha una produzione unica, per varie ragioni. Gli altri non hanno questa fortuna e devono ridurre i profitti.

    Le condizioni di lavoro in Cina….Guarda che questi sono fortunati. C’è stato un tempo che i lavoratori, soprattutto gli ex carcerati a lunga detenzione, se volevano mangiare dovevano rimanere dove avevano trovato l’ultimo lavoro, a costo di pagare la loro scelta con uno status sociale assimilabile alla schiavitù.

    Se mi consenti questo eufemismo riduttivo, non è una bella cosa. Ovvio. Ma fa parte delle condizioni di vita medie della Cina no occidentalizzata. Quella parte della Cina che non è sulla costa orientale (Shangai…..), non è Singapore o Honk- Kong…..

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