Apple e Google hanno testimoniato al senato sul LocationGate

di Redazione 2

Si è svolta ieri a Washington l’attesa udienza di Apple e Google presso la commissione senatoriale per la tutela della Privacy istituita per fare chiarezza sul cosiddetto locationgate. A rappresentare Apple era presente Guy L. Tribble, da tutti conosciuto come “Bud” Tribble, storico Vice President della Software Technology. A rappresentare Google, fa notare Daring Fireball, c’era invece Alan Davidson, un lobbista che tutela gli interessi di Big G nella capitale federale degli Stati Uniti.

I due rappresentanti delle aziende hanno esposto per la maggior parte le stesse ragioni emerse nei giorni scorsi. Tribble in particolare ha ribadito quanto pubblicamente affermato da Apple nelle ormai note Q&A sulla questione locationgate, pubblicate due settimane fa ma ha anche saputo rispondere in maniera esauriente alle incalzanti e pertinenti domande del collegio senatoriale presieduto dal Sen. Al Franken, colui che per primo e con maggiore determinazione ha voluto fare chiarezza sulla questione della privacy degli utenti smartphone. La testimonianza di Tribble era impostata su un nuovo documento ufficiale che Apple ha preparato e presentato alla commissione (download PDF) in cui vengono riassunti e approfonditi tutti i punti già precedentemente esposti anche dagli executive Apple intervistati da Ina Fried per All Things Digital. Il Sen. Al Franken ha fatto riferimento proprio a quell’intervista per evidenziare un’apparente contraddizione in termini nelle affermazioni di Apple.

Franken ha fatto notare che secondo quanto dichiarato da Steve Jobs “Apple ha creato un database crowd-sourced degli hot-spot Wi-Fi e delle celle di rete che possono trovarsi fino a 100 miglia di distanza dal punto in cui si trova l’utente” e che per questo non ne rivelano la posizione. “Però poi,” ha continuato Franken, “in un’affermazione messa per iscritto lo stesso Jobs ha detto che quei dati servono per aiutare l’iPhone a calcolare più rapidamente la propria posizione […] Sig. Tribble, la mia impressione è che queste due affermazioni non possano essere vere contemporaneamente”.

Questa la risposta di Tribble: “Senatore, i dati raccolti nel database sono la localizzazione di tanti hot-spot Wi-Fi e antenne telefoniche quanti ne riusciamo ad ottenere. Quei dati non contengono effettivamente, nei nostri database, alcun tipo di informazione relativa all’utente. Sono completamente anonimi. […] Tuttavia quando il telefono scarica una porzione di quel database, il telefono sa anche quali hot-spot e antenne può ricevere in quel momento. Quindi la combinazione del database […] e della capacità del telefono di riconoscere quelle che può ricevere in quel momento è il modo in cui il telefono riesce a capire dove si trova senza il GPS”.

Quanto alla localizzazione da parte di applicazioni di terze parti Tribble ha decantato le virtù del walled garden chiamato App Store che tanti criticano in quanto sistema chiuso, ma che permette all’azienda di controllare con efficacia quello che fanno gli sviluppatori e di agire rapidamente in caso di abuso. Il dirigente ha inoltre auspicato, a nome dell’azienda, un ulteriore inasprimento delle leggi sulla privacy in ambito mobile, spiegando che Apple non avrebbe nessun problema ad adattarsi a direttive più stringenti sulla questione. Una posizione che indirettamente mette in difficoltà Google. Per quanto i metodi e le tecnologie usate da Android e iOS siano simili, una sostanziale differenza separa le due compagnie: Apple guadagna con percentuali sulla vendita delle app e soprattutto vendendo l’hardware; una parte non trascurabile del profitto di Google deriva invece dal trattamento dei dati personali degli utenti.

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