L’Apple Watch tra esclusività e superficialità

di Redazione 3

L'Apple Watch è tra noi. Non proprio tra noi italiani, visto che per adesso non ci sono conferme sulla data di lancio nel nostro Paese. Tra noi, umani. Tra noi che non rientriamo nell'empireo dei VIP che hanno ricevuto un regalino anticipato da Cupertino. Noi che mai ci saremmo sognati di fare una fila davanti ad una boutique di lusso per un prodotto Apple.

Gold-Apple-Watch-250x255Preordini alle stelle. Tempi di consegna biblici. Attesa spasmodica in tutti i paesi dove il prodotto non è ancora arrivato. Social Media invasi da testimonianze di acquirenti che hanno preso una giornata di ferie per aspettare a casa il corriere.

Tutto nella norma, insomma: il lancio dell’Apple Watch è un altro di quei grandi lanci di successo cui Apple ci ha abituato nel corso degli ultimi 10 anni.
La nuova Apple di Tim Cook, per la quale il Watch rappresenta il punto di svolta, è ancora all’altezza della Apple di Steve Jobs. Per molti versi, si potrebbe dire, è una Apple ancora migliore. Sicuramente dal punto di vista finanziario, ma anche dal punto di vista organizzativo e della comunicazione.

Eppure ci sono delle note stonate, in queste giornate di frenesia per il nuovo grande gingillo Made in Cupertino. E mi cruccio, perché non sono ancora riuscito a capire se queste note le sente solo il mio orecchio da geek, oppure se le sentono anche tutti gli altri, anche fuori dalle nostre cerchie di tecnomani.

Quel che non mi convince non è l’Apple Watch. Il prodotto è un altro gioiello tecnologico di quelli che solo Apple sa sfornare. Pur non avendolo provato ancora davvero (purtroppo), appare chiaro che è il primo smartwatch che può davvero funzionare e trovare un suo spazio nel mercato ancora in divenire dei wearables.

No, le mie perplessità riguardano l’esclusività e la superficialità. 

L’esclusività è quella che Apple ha voluto rimarcare lanciando un modello di Apple Watch, l’Edition, destinato solo ai super ricchi. L’Apple Watch Edition, lo confesso, non l’ho ancora capito davvero. E di questo mi dolgo, perché solitamente i meccanismi che governano le scelte di Cupertino mi sono sempre abbastanza chiari.

Sull’Apple Watch Edition ho potuto fare solo ipotesi, nessuna che mi convinca fino in fondo:

  • è un capriccio di Jony Ive, che da tempo voleva fare qualcosa di estremamente lussuoso con il suo amico Newson che non fosse un semplice oggetto per le aste di beneficienza di questa o quella associazione
  • è una tattica di marketing. L’esclusività del modello in oro è un cavallo di troia, per conquistare una fascia di utenti che altrimenti non avrebbe neppure preso in considerazione un Apple Watch e che offre un ritorno molto alto in termini di visibilità
  • è una scelta obbligata per chi, come Apple, vuole fare concorrenza ai potentati mondiali dell’orologeria. Se vuoi metterti contro Patek Philippe, Rolex, Panerai, contro il gruppo Tag Heuer, allora devi giocare su livelli molto più alti, non raggiungibili con un prodotto di fascia medio bassa, quali sono l’Apple Watch e l’Apple Watch sport nel mercato degli orologi.

Forse la risposta è un’insieme di tutte e tre le ipotesi, forse c’è altro che mi sfugge.
Mi aspettavo critiche più feroci a questa scelta, soprattutto da parte degli utenti Apple della prima ora. La maggior parte dei potenziali clienti, invece, ha semplicemente apprezzato e scelto i modelli Sport e Watch e ignorato l’Edition, che laddove è già disponibile, al contrario, è già andato a ruba. Il meccanismo non l’avrò capito, ma per ora sembra aver funzionato a dovere.

La scelta di affidare la vendita del Watch ad una serie di Boutique selezionate (che per altro oggi lo possono vendere direttamente, a differenza degli Apple Store) mi è poi sembrata una disastro delle Pubbliche Relazioni in attesa di compiersi. Mi sbagliavo ancora, visto che nessuno ha davvero criticato la scelta. Tanto meno gli utenti Apple e i potenziali clienti.

Ieri su Twitter lo dicevo per scherzo, ma pare che un po’ di gente si sia messa in fila davvero davanti ai negozi selezionati per cercare di mettere le mani su un Watch prima degli altri. Angela Ahrendts, la SVP retail di Apple, aveva detto che l’epoca delle file davanti agli Apple Store è finita. Aveva ragione, si sono spostate davanti alle boutique di lusso.

Quanto alla superficialità, mi riferisco principalmente alla campagna di product placement al polso dei super-VIP e alle apparizioni di Jony Ive presso ambienti salottieri italiani così stereotipati e patinati da sembrare finti.

Chiariamoci: non sono le scelte di marketing ad essere superficiali. Tutt’altro. La macchina del marketing di Cupertino in queste settimana vanta una complessità organizzativa inarrivabile per la maggior parte delle aziende tecnologiche del mondo.

E’ la superficialità delle situazioni e delle persone, nonché dei valori che quelle persone rappresentano, a lasciarmi perplesso.

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L’Apple Watch al polso di Karl Lagerfeld che ha fatto il giro del Web e dei social – una versione esclusiva dell’Edition con cinturino in oro che non è neppure in commercio –  non era neppure configurato e associato ad un iPhone. Lagerfeld lo portava al polso come fosse l’ultima patacca che solo lui poteva avere e in fondo quello era lo scopo.

Beyoncé lo stesso modello se l’è messo al Coachella — chi non indossa il suo orologio d’oro ad un festival del genere? Il rapper Drake, sempre al Coachella, ne aveva uno con cinturino rosso, perfettamente intonato con la sua tuta. Katy Perry non ha potuto fare a meno di scrivere un profondo pensierino su quanto gli piaccia lo sfondo del quadrante con Mickey Mouse.

Tutti cavalli di troia, anche in questo caso. Massima esposizione ad un costo minimo e strada spianata verso i paginoni di Vanity Fair e Vogue. Vero.

E poi però ci sono i salotti buoni e la scelta dello “schivo” Jony Ive di esporsi in prima persona in compagnia di un jet set patinato che è quanto di più lontano dai valori di fondo di un’azienda che si vuole porre “all’incrocio fra tecnologia e arti liberali”. Sul blog della “famosa” Fashion Blogger Audrey Tritto trovate un resoconto dettagliato dell’entusiasmante serata di gala milanese.

Anche in questo caso, posso fare uno sforzo e capire che certe situazioni si rendano necessarie. Il Salone del Mobile non è di per sé il posto sbagliato per far parlare dell’Apple Watch.
Tutto chiaro e ben delineato. In fondo certe pillole vanno ingollate. E si potrebbe pure dire che la presenza annuale di Tim Cook alle conference di Goldman Sachs sia peggio di una comparsata salottiera. Del resto chi sono quelle persone che animano la mondanità milanese a confronto di una mente come quella di Jony Ive, direte voi. Dei signori nessuno un po’ più famosi degli altri, magari.

Tutto vero. Tutto giustificabile. Ma una domanda di fondo rimane: questo selfie era proprio necessario?

Gal2

Commenti (3)

  1. ottimo articolo! pieno di passione e verità! complimenti. dico sul serio!

  2. Sono pienamente d’accordo. Tutto questo non può che dimostrare definitivamente la cesura netta, il fossato ormai incolmabile fra la cultura Apple degli ultimi anni, con quella “genuina” dei primi anni dell’azienda, sia dal lato dirigenza che soprattutto da quello “utente” (che fa davvero la differenza). Ho però fiducia di potermi trovare ancora “a casa mia” quando utilizzo un prodotto Apple, dipende sempre dall’esperienza utente, che per fortuna è rimasta eccellente.

  3. Concordo. Questo nuovo metodo di vendita, voluta dall’Angela, è quanto di meno Apple si sia mai visto. Il cavallo di battaglia finora è stata la possibilità di toccare gli oggetti, accenderli, sentirli. Cosa alla quale Steve Jobs teneva tantissimo e che è stata la mossa vincente degli Apple store

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