Macintosh, gli anni bui

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Ci riconosciamo, fra noi che abbiamo fatto la guerra. Abbiamo gli stessi tic e le stesse abitudini. Guardiamo con tenerezza i giovanotti che oggi brandiscono i loro iPhone e i loro iPad come se Apple fosse sempre stata sulla cresta dell’onda. Scuotiamo la testa nell’assistere all’inedita copertura sui media – più o meno dal giorno del primo iPod – per ogni presentazione di prodotto uscito da Cupertino. E perdiamo la pazienza quando veniamo accusati di usare prodotti Apple perché «sono di moda».

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Allora bisogna che qualcuno ci tenga fermi. Di moda? Tu, saputello che ti senti un hacker in erba solo perché hai un Android in mano, che ne sai dei Performa, del Newton, del terrificante patto con la Power Computing? Del Centris e del Quadra? Di Pippin e di Copland, che non è un compositore né un film con Stallone grasso ma il peggior fallimento software di Spindler, Amelio e soci?

A quell’epoca, Apple e il Macintosh erano tutto tranne che cool. Chi è stato un teenager negli anni Novanta rammenterà gli sguardi invidiosi verso gli Amiga e i PC e la gioia sempiterna quando tra mille difficoltà trovava un clone di PacMan shareware e scrauso, così come si ricorderà bene tutto il vantaggio del System rispetto a Windows rosicchiato via via da un Bill Gates agguerrito e assai lontano dalla pensione. Furono anni bui, che meritano di essere raccontati.

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Non è tutto oro quel che luccica

È facile dare la colpa di tutto al siluramento di Jobs nell’85, e far coincidere il suo ritorno nel ’97 con una nuova età dell’oro per Apple; e in parte probabilmente è proprio così. Però questa spiegazione non chiarisce completamente il quadro.

Per prima cosa, i guai che la Mela ebbe sul finire degli anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta erano connaturati allo stesso Mac: riscrivere tutte le applicazioni per la nuova interfaccia era estremamente dispendioso per le società informatiche, perciò in molti scelsero di non farlo e cominciò una lunga e storica carenza di programmi che non fossero di musica e DTP, almeno fino a quando non si affermò Windows 3.1. Allora la parola d’ordine era DOS: il Mac, a parte grafici e musicisti che lo abbracciarono in massa, era forse troppo rivoluzionario. Se a questi sintomi aggiungiamo una buona serie di scelte sbagliate, cominciamo a capire come andarono davvero le cose.

Per cominciare, anche se 2495 dollari sembrarono pochi, non erano comunque pochissimi. Il prezzo-bomba per il primo Mac, il Macintosh 128k, avrebbe dovuto essere un po’ sotto i duemila dollari. Eppure Apple per scelte di Jobs e di Sculley, esperto uomo di marketing, spese talmente tanto per promuovere il nuovo computer (compreso l’acquisto di tutte le pagine pubblicitarie dell’edizione post-elettorale di Newsweek nel novembre 1984) da dover ritoccare verso l’alto il cartellino, e non di poco. Perciò Jobs, che pensava di vendere due milioni di Mac entro la fine del 1985, riuscì a piazzarne soltanto 250.000 e gli Apple II continuarono a essere il prodotto di punta per parecchio tempo.

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L’affaire Macintosh Office

Tutti si ricordano la pubblicità di Apple per il Superbowl del 1984. Pochi quella del 1985, Lemmings. C’è un perché: è una delle pubblicità più brutte e insensate mai realizzate dalla Mela. Avete presente quando si dice che con Let it be i Beatles, che ormai si odiavano allegramente, pubblicarono un disco sotto il loro standard perché ognuno andava per i fatti suoi? Lemmings, con le dovute proporzioni, è lo stesso. Ci cogli la magniloquenza da grande evento (come per 1984, è vero: ma certi toni si possono usare una volta sola), una malcelata arroganza verso gli utenti – rappresentati come lemmings suicidi finché non arriva Apple a illuminarli – e infine una confusione generale che non può non alludere alla lotta interna per il potere che si stava consumando a Cupertino.

Lemmings doveva annunciare Macintosh Office, un sistema composto da una LAN basata su AppleBus (l’AppleTalk Personal Network), un file server (nome codice Big Mac) e una stampante laser in rete, la LaserWriter. Fu un mezzo disastro, solo parzialmente mitigato dall’introduzione del Macintosh XL (una sorta di nuova versione del Lisa che si esaurì troppo in fretta): il primo, e di certo non il più grave, di una lunga serie.

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Il Mac entra davvero nelle case

Mentre Jobs veniva fatto fuori, finiva in Next e Sculley prendeva il potere, il Macintosh stava evolvendosi. Nel 1986 entrò in produzione il Macintosh Plus, destinato a rimanere in commercio per parecchi anni con il suo megabyte di RAM, espandibile a 4, e la prima porta SCSI. Un anno dopo fu il turno del Macintosh SE, che portò numerosi cambiamenti: lo spazio per un secondo floppy drive o per un hard disk, da 20 o 40 MB, uno slot di espansione, le nuove interfacce ADB, la prima ventola.

Gli anni dal 1989 al 1991 furono positivi. Venne inaugurata la linea dei Mac ad alte prestazioni e non compatti col Macintosh II (a cui negli anni seguirono il IIx, il IIcx, il IIci, il IIfx, il IIsi, il IIvi e il IIvx, l’ultimo prima dei PowerMac). Si iniziò a produrre il primo Mac sotto i mille dollari, il Macintosh Classic, per sostituire il Plus; un computer solido, che rappresentò per molti il primo approccio col mondo Apple, ma che già portava sintomi di obsolescenza da non sottovalutare (niente display a colori, montava ancora 1 MB di Ram e un processore 68000). A ottobre nel 1990 comparve il primo Mac di fascia relativamente bassa a colori, il LC, low-cost color, col suo famoso case molto sottile e somigliante a un cartone per la pizza. Il padre dei Performa. Tra poco ci arriviamo.

Meno fortunato fu il primo Mac portatile, il Portable, lanciato nel 1989 per la bellezza di 6.500 dollari e soprattutto pesava sette chili e due. Per capirci, quasi sette odierni MacBook Air da 11″. Altro major flop ma Apple corse ai ripari abbastanza in fretta, subappaltando la scheda madre a Sony per la miniaturizzazione uscendo nel 1991 con il PowerBook 100, un gioiellino di design lontano anni luce dall’ingombrante genitore. Altra pietra miliare di quell’anno fu il System 7, che stabilì l’architettura di tutti i futuri sistemi operativi Apple fino al 2001.

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Apple perde la bussola

I problemi arrivarono dopo. Nel 1993 Sculley fece la fine di Jobs, non prima di aver investito parecchie risorse in un suo pallino, il Newton, un palmare con parecchie intuizioni notevoli (riconoscimento della scrittura e vocale) ma con una non ottimale implementazione delle stesse (pure i Simpson ci scherzarono su). Quando Jobs tagliò anni dopo la divisione Newton, se ne erano andati cinquecento milioni di dollari.

Al posto di Sculley arrivò Michael Spindler, ma il panorama era ormai molto mutato. Se i competitor prima erano Atari e Amiga, i PC ora cominciavano a montare Windows, avevano un’interfaccia peggiore ma comunque paragonabile, costavano poco ed erano configurabili in maniere che il Mac nemmeno si sognava. L’adagio era: “Windows non è al livello del Macintosh, ma è abbastanza buono per l’utente medio“. E per farla breve, visto che non ci sono molti modi diversi per dirlo, in Apple sbroccarono. Cupertino divenne conosciuta come una delle società peggio gestite degli Stati Uniti. Uscirono contemporaneamente tre diverse linee di nuovi Mac: i Quadra, i Centris e i Performa, con risultati che andarono dal buono al terrificante. L’idea era quella di avere un’offerta high-end, una a basso costo e una di mezzo (i Centris, appunto). Nel frattempo resistevano ancora le line Classic, II e LC. Dopo un po’ si resero conto che era una sciocchezza e i Centris vennero ribattezzati in Quadra. Ma non bastò.

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Underperforming

Il Performa, beh, merita un discorso a parte. L’idea era sostanzialmente quella di prendere dei modelli già esistenti di Macintosh e ribattezzarli, distribuendoli tramite rivenditori autorizzati, per poterli posizionare presso mega-catene di distribuzione come Sears. Primo problema: una quantità impressionante di modelli, una trentina, così i potenziali compratori ben presto non ci capirano più nulla (Apple dovette perfino creare un filmato di trenta minuti, “The Martinettis Bring Home a Computer”, per spiegare agli utenti come orientarsi nella scelta). Per capirci, il Performa 475 e il 476 differivano solo per la capacità dell’hard disk. Non tutti facevano pena, beninteso: ma senza guida, era come cercare l’ago in un pagliaio.

La decisione di farli rivendere in grandi catene fu disastrosa, perché senza avere training specifico gli adetti non riuscivano a far girare le demo e sconsigliavano i Performa perché “poco compatibili”, dirottando i compratori verso altre scelte: PC con Windows. Se non altro la lezione dei Performa fu imparata: alla fine degli anni Novanta, si decise che Apple avrebbe avuto soltanto una linea di computer consumer, una professionale e altrettante per i portatili, come oggi.

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La guerra (persa) dei cloni e Copland

Nel 1994 Apple abbandonò i processori 680×0 e passò al PowerPC, nato dall’alleanza con IBM e Motorola, dotando i modelli di Power Mac di un emulatore software; fu una transizione delicata e necessaria ma non bastò a invertire la rotta, visto che un anno dopo Microsoft mise a segno un colpo da maestro con Windows 95.

Visto che le cose si mettevano male, Spindler ebbe un’altra idea brillante: dei cloni ufficiali, costruiti dando in licenza a terzi il sistema operativo le ROM del Macintosh dietro il pagamento di un corrispettivo iniziale e delle royalties. In quel momento, alla NeXT, probabilmente a Steve Jobs sarà venuto un colpo. E con buone ragioni: all’inizio l’idea sembrò funzionare, poi i cloni a basso prezzo cominciarono a cannibalizzare le vendite dei Mac più potenti, il tutto lasciando ad Apple la responsabilità (e gli oneri) di sviluppare nuovi modelli di sistema operativo.

A proposito. Nuova idea: cambiare definitivamente il sistema operativo dei Mac, visto che il vecchio System cominciava a mostrare un po’ la corda e Windows si avvicinava a grandi passi. Ecco dunque il progetto Copland, nato da una linea di nuove idee a lungo termine dopo l’introduzione del System 6 – la linea “rosa”, laddove la “blu”, per le specifiche a breve termine, finì col diventare il System 7. Copland doveva essere basato sulla programmazione orientata a oggetti e cominciarono a uscire delle demo promettenti mentre, in realtà, le cose procedevano molto lentamente. A porre fine all’idea arrivarono i disastrosi risultati fiscali del 1996, quando Gil Amelio era diventato da poco il nuovo CEO.

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Come l’uomo dei tagli finì tagliato

Amelio rimase in carica un anno, il più duro della storia di Apple. La situazione che trovò, bisogna dirlo, era disastrosa: scarsissima liquidità, linee di prodotto confusionarie, mancanza di veri risultati da mettere sul piatto per il nuovo sistema operativo. Allora tagliò: un terzo di dipendenti Apple rimase a casa e Copland venne spazzato via. Le azioni crollarono al livello più basso degli ultimi dodici anni.  Amelio, fisico capace ma non propriamente un visionario della tecnologia, scelse  pertanto l’unica strategia possibile: farsi aiutare da quelli più bravi. Se non si riusciva a creare un buon sistema operativo internamente, allora era necessario comprarlo. Contattò la Be Inc. per acquistare BeOS. L’amministratore delegato era Jean-Louis Gassée, un tempo executive Apple e personaggio interessante. Letteralmente adorato dai dipendenti e detestato da Jobs, girava per Cupertino anche duranti gli incontri formali con un orecchino di diamante e una giacca di pelle nera. Spesso in disaccordo col resto del management, lasciò Apple nel 1990, e quando Amelio gli si presentò davanti col cappello in mano sparò alto. 275 milioni, Apple era disposta a spenderne duecento. Troppo. «Li tengo per le palle», confidò a un amico, e la voce raggiunse Amelio che non gradì.

C’era ancora il piano B, ma era necessario lasciare da parte molto orgoglio. Andare da un certo Steve Jobs, alla NeXT, e dirgli come stavano le cose. Amelio si recò di persona a casa di Steve, che lo trattò con sua grande sorpresa come un vecchio amico. «Solo un lato della sua sfaccettata personalità, come avrei imparato», disse Amelio più tardi.

Il quattro febbraio 1997, Apple comprò NeXT per 429 milioni. Jobs rientrò come consulente. A luglio Amelio si dimise. Il 16 settembre Jobs divenne CEO ad interim.

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