Esclusivo: Apple presenta il Macintosh

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(Ho un amico che fa il rivenditore Apple da trent’anni, con una cantina piuttosto capiente e un sacco di vecchi Mac. Ogni tanto tocca anche a lui pulirla. Così, qualche giorno fa dandogli una mano ho ritrovato un vecchio Macintosh 128 K impolverato, l’abbiamo recuperato, ripulito e quando abbiamo provato ad accenderlo abbiamo scoperto che funzionava ancora. Ma il bello deve ancora arrivare: nei documenti abbiamo ritrovato un file di testo, di autore ignoto, con questo resoconto in prima persona. Era evidentemente il Mac di un’azionista che aveva preso parte al lancio del Macintosh il 24 gennaio 1984. Ve lo ripropongo tradotto nella sua interezza, con l’aggiunta di alcune immagini dell’epoca.)

Cupertino, Flint Center, 24 gennaio 1984.

Mentre sono seduto in un auditorium stipato all’inverosimile, mi viene in mente che questo Steven P. Jobs non mi ha mai convinto.

D’accordo, lo so: è un genio del computer. Se non lo fosse, mio figlio non mi avrebbe obbligato a comprare quelle azioni. «Sarà un ottimo investimento per il futuro, papà».

Gli ho dato retta, altrimenti l’avrei dovuto sopportare per giorni. Lui è entusiasta. Adora Jobs e «l’altro Steve», quello che è caduto con l’aereo ed è diventato mezzo matto. Bella forza: mio figlio è un ingegnere, non sogna altro che finire là. A Silicon Valley, come la chiamano. Contento lui. È ingenuo. Si fida.

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Ma io li conosco, i tipi come Steve Jobs. Hanno avuto tutto troppo in fretta. Diventano arroganti. Ha lasciato il college, pare si facesse di acidi, è andato pure in India, dal solito santone, alla Beatles… tipico. Di sicuro è uno di quelli che si credono Dio e poi sbattono per terra di colpo. Come il suo amico sull’aeroplano.Sono convinto che prima o poi lo faranno fuori dalla società.

Prendiamo adesso, ad esempio. Sono circondato da «azionisti» che per la maggior parte sono giovanotti di vent’anni col moccio al naso, tutti sorridenti. Come si chiama questo posto? Flint Center. Ci saranno già tremila persone. Il mio è un piccolo investimento ma lo voglio curare. Voglio vedere cosa fanno coi miei soldi.

E oggi non sono contento. Tutti sembrano felici e io no.

L’ho letto sui giornali: IBM ci sta facendo a pezzi. Apple è stata arrogante, quando è arrivato questo PC il buon Steven P. Jobs si è limitato a scrollare le spalle, a dire chi se ne frega, tanto il nostro Apple II è cento volte meglio. E adesso? Adesso tutti hanno un PC IBM.
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Oh, hanno spento le luci, finalmente. Mi sono preso un giorno di ferie e spero di averlo speso bene. Eccolo lì, Steve Jobs, con tanto di cravattino e giacca a doppio petto. È troppo buio, questo posto.

«Buongiorno e benvenuti all’incontro per gli azionisti Apple 1984. Vorrei iniziare leggendo una piccola parte di un vecchio poema di Dylan. Intendo Bob Dylan».

The Times They Are A-Changin’. Oh, ovviamente. Ho capito: critici, non bastonatemi sui giornali se vi sembra che il mio prodotto vi faccia schifo, tanto i tempi stanno cambiando. Patetico.

Giù al lavoro ho fatto comprare un Apple III. Avete presente una fornace industriale? Ecco. Dopo tre giorni il linoleum del tavolo si stava sciogliendo. Quando arriverà l’estate non si potrà lavorare nella stanza dell’amministrazione. L’altro giorno è arrivato Bill Thompson, un mio amico, ha guardato l’Apple III e si è messo a scuotere la testa.

Che c’è, Bill?, gli ho chiesto. Cos’ha che non va? È superato, Frank, mi ha detto. È superato. E quel Lisa? Come si fa a far pagare un computer da ufficio diecimila dollari? Dammi retta, Frank, il futuro è IBM. Sono più piccoli e costano un quarto. Un quarto, capisci?

Sul palco ora c’è un tale Al Eisenstadt. La parte legale dell’incontro. «La parte eccitante arriverà dopo». Staremo a vedere. Ecco John Sculley. Ora, questa è una persona seria. Una delle ultime mosse decenti di Steven P. Jobs.

E perlomeno non si nasconde: il 1983 è stato uno schifo. Dice anche la parolaccia che tutti temono, IBM. I ragazzini vicino a me sono ammutoliti come se gli avessero appena detto che Babbo Natale non esiste. «Oggi introdurremo il primo prodotto commerciale per famiglie dall’Apple II in poi». Lo sappiamo, lo sappiamo, per questo siamo qui. Il Macintosh.

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Quel video durante il Superbowl? Vogliamo parlarne? Ridley Scott, il tizio di Alien. Mi domando quanto sarà costato. Meno male che almeno hanno vinto i Raiders. Una martellata in faccia a Ibm… non la prenderanno bene, e adesso anche i loro occhi sono puntati all’affare che presenteremo oggi.

Macintosh. Non mi sono mai piaciute le mele McIntosh. Vanno bene per le torte. Non per un computer.

Se questi non hanno davvero un asso nella manica, qui siamo tutti morti.

«Stiamo tornando alle nostre radici», sta dicendo Sculley. Ah, allora ammettete di avere sbagliato, con l’Apple III e quello stupido Lisa. Magra consolazione. Poi presenta qualcuno. «Un visionario». Ancora Jobs.

Sono io, o questo posto diventa sempre più buio? È un qualche tipo di metafora?

«E’ il 1958. IBM rinuncia all’opportunità di comprare un’azienda giovane e promettente che ha appena inventato una nuova tecnologia chiama xerografia. Due anni dopo nasce Xerox, e IBM è lì che sta sbattendo la testa contro il muro da allora». Jobs emerge col suo papillon nella tenebra artificiale dell’auditorium.

Beh, quando vuole è abbastanza simpatico, ammettiamolo. Arrogante, egocentrico, ma simpatico.

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«Nel 1977, Apple, un’azienda giovane e promettente sulla Costa Ovest, inventa l’Apple II, il primo personal computer come lo conosciamo oggi. IBM snobba il personal computer perché è troppo piccolo per farci cose serie e, quindi, di nessuna rilevanza per il suo business. Nel 1981, l’Apple II è diventato il personal computer più popolare del mondo, e Apple è una società da trecento milioni di dollari, quella con la crescita più rapida nella storia degli Stati Uniti…».Sì, ma era tre anni fa, mister Jobs. Tre anni fa. E ora, ora?

«Ora è il 1984. Sembra che IBM voglia prendersi tutto. Apple viene considerata l’unica speranza per dare del filo da torcere a IBM. Gli operatori, che all’inizio hanno accolto IBM a braccia aperte, ora hanno paura di un futuro controllato e dominato da IBM». IBM, IBM, IBM: almeno ha capito anche lui chi è il nemico. La sua voce di solito strafottente e quasi stridula diventa sempre più concitata. Questo ragazzo si sta togliendo molti sassolini dalle scarpe. Spero non a spese nostre.

«Sempre di più guardano ad Apple come l’unica forza in grado di assicurare un futuro libero». L’ultima speranza, l’unica forza. Dannazione, che cos’è, Guerre Stellari? Intanto l’umore dell’auditorium ha raggiunto il parossismo. Jobs urla sempre più forte, il pubblico di ingegneri gli risponde come a un telepredicatore via cavo.

«IBM vuole tutto e sta puntando le sue armi contro l’unico ostacolo al suo controllo dell’industria: Apple. Big Blue dominerà quindi l’intera industria del computer, l’intera età dell’informazione?»

«No!»

«GEORGE ORWELL AVEVA RAGIONE?»

«NO!».

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Ancora lo spot. Beh, lo ammetto, adesso fa un effetto diverso. Un po’ di pelle d’oca ce l’ho anch’io, mentre quella bionda distrugge lo schermo proprio mentre IBM – voglio dire, l’attore – dice «Noi vinceremo!».

Poi, subito dopo, eccolo.

Macintosh.

È quello scatolotto lì?

Ripeto: è quello scatolotto lì?

E il resto del computer dov’è? Quello è solo lo schermo. E cos’è quell’affare con un pulsante sopra?

Mio figlio l’aveva detto: «Su Newsweek sono uscite sedici pagine pubblicitarie sul Macintosh, se vuoi vederle. È fantastico, le specifiche sono eccellenti, ma sopratttutto…». Ma io no. Mi sarebbe venuto il sangue alla testa nel pensare a tutti quei soldi sprecati in pubblicità. Così non ho voluto vedere niente.

Ma è tutto lì?

Duemilaquattrocentonovantacinque dollari. Allora è un giocattolo. Dev’essere per forza un giocattolo. Non può costare così poco.

Finestre, punta-e-clicca, icone, menu. Tirare giù il menu. Ma di che cosa diavolo sta parlando?

«…e si mangia gli 8080 a colazione».

Ho l’impressione che il tizio seduto accanto a me – un trentenne coi baffi rossi, mezzo pelato, la camicia a maniche corte – stia letteralmente per scoppiare.

Snocciola numeri, ora, Jobs. Non è che ci capisca più di tanto. Mi basta che funzioni. Quelli sono i dischetti? Ma sono molto più piccoli, ci starà molta roba di meno. Ah, no: più capienti. Come accidenti hanno fatto?

«Il display è incredibile». Quell’affare pesa un terzo di un PC. Un terzo. Datemi Bill Thompson, adesso, ora.

«Avete visto finora molte fotografie del Macintosh. Voglio farvi vedere il Macintosh in persona. Tutte le immagini che state per vedere sono state create da ciò che sta dentro quella borsa».

Silenzio di tomba. Jobs si avvicina a una piccola valigetta, la apre con gesti studiati. Ne estrae un pezzo di stoffa – no, un momento, quello è il computer. L’ha tirato su come un pezzo di polistirolo. Con una mano sola. Una mano sola.

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Lo accende. Per un momento temo che non possa funzionare e stringo il bracciolo della poltrona. Jobs estrae uno di quegli strambi dischetti dalla tasca del doppiopetto. Le luci si abbassano di nuovo.

Oh, Momenti di gloria. Adoro quel film.

MACINTOSH. Gigantesco sullo schermo. La folla impazzisce. Il rosso al mio fianco si alza in piedi. Anch’io.

Quello dev’essere un programma di grafica? Sembra un programma di grafica. Ma è una fotografia. E quella freccetta che si muove? La guida lo scatolotto, così, semplicemente? Non riesco a vedere. Un foglio per i conti. Un capitello. Allora è davvero tutto lì dentro, posso metterlo sopra un comodino e farne un ufficio. Quelle devono essere le finestre, e a sinistra i comandi, c’è una matita, un pennello… potrei usarlo in cinque minuti perfino io, mi sa. Dov’è la linea di comando? Non c’è la linea di comando. La foto di Jobs che pensa il Macintosh. Questa grafica Bill Thompson può sognarsela di notte. Gli scacchi.

«Abbiamo parlato molto del Macintosh, recentemente. Ma oggi, per la prima volta, vorrei far parlare lui».

Sto sudando freddo, mi risiedo, ho la testa che mi gira. Sorrido nervosamente al rosso, che di rimando mi lancia l’occhiata di chi la sa lunga. Sto per dire qualcosa, ma.

«Ciao, sono Macintosh. È proprio bello essere fuori da quella borsa».

Ha parlato.

Quel coso ha parlato.

Il Flint Center si alza in piedi, tutto, contemporaneamente. Scatto di nuovo su. Duemilacinquecento persone gridano come impazzite. Sento che mi fa male la gola e capisco che sto urlando anch’io.

«Essendo poco abituato a parlare in pubblico, vorrei condividere con voi una massima a cui ho pensato la prima volta che ho visto un PC IBM. NON FIDARTI MAI DI UN COMPUTER CHE NON RIESCI A SOLLEVARE!».

«Ovviamente, posso parlare…ma adesso vorrei stare ad ascoltare. Così, è con grande orgoglio che vi presento un uomo che per me è stato come un padre… STEVE JOBS».

Ecco, io non so esattamente cosa sia successo nei due minuti successivi. So solo che non si sentiva più niente, io e il rosso stavamo saltellando tenendoci per le spalle come due imbecilli, che Jobs con un sorriso grosso così stava per mettersi a piangere ma ce l’ha fatta a trattenere le lacrime, dopo due minuti di ovazione ha ringraziato il team di sviluppatori in seconda fila dicendo che sicuramente si stavano sentendo molto bene in quel momento, e ha detto: il Mac è il computer per il resto di noi. Poi sono partiti gli spot.

Mentre l’auditorium in cui mi trovo diventa sempre più simile a uno stadio di football che a un teatro, mi rendo conto che l’ho sempre adorato, io, Steven P. Jobs.

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